
Una giornata tra sterrate e pasticcini, bagni d’acqua dolce e dune salmastre
L’asfalto finisce all’improvviso, appena superate le ultime case, con quell’eleganza casuale che riservano le cose migliori: nessun avvertimento, nessuna spiegazione, quasi che il paesaggio sapesse meglio di noi quando è tempo di cambiare registro. È lì, lungo via Aldo Moro, all’altezza del cimitero, che la strada diventa una linea biancastra di polvere compressa, serpeggiante tra le colline di un verde sfacciato, simile a una vena emersa casualmente, quasi dimenticata.
La corsa inizia proprio qui, in quel momento incerto in cui la notte ancora umida si ostina contro la luce invadente del mattino e le gambe, poco convinte, pretendono chiarimenti. Sulla destra, due pale eoliche emergono come divinità moderne di dubbia affidabilità: una gira con determinazione, l’altra sembra aver dichiarato sciopero, immobile e imbronciata. Il suono del vento sulle pale crea un ritmo metallico e ipnotico che si fonde, con ironica precisione, al respiro affannato di quei primi passi, quando il corpo è indeciso se sostenerti o mandarti semplicemente al diavolo.
Quattro chilometri più tardi, con la strada che si chiude in un anello perfetto e un accenno di salita che sembra quasi provocazione, ecco i cartelli all’ingresso del paese: “Ischia di Castro” annuncia uno, quasi a rassicurarti che, sì, sei arrivato esattamente dove pensavi di arrivare. Accanto, altri segnali indicano il necessario per affrontare qualunque giornata degna di nota: Carabinieri, Strada dell’Olio, chiesa della Madonna del Giglio, farmacia, biblioteca comunale. Cartelli che suggeriscono stati d’animo più che indicazioni stradali vere e proprie, quasi un invito discreto a deviare, guardarsi intorno e, perché no, perdere un po’ la direzione.
Superato il bivio, una rapida sosta alla fontanella per un sorso d’acqua, poi la discesa lieve, dolce ironia della fatica appena trascorsa, verso una pasticceria di paese.
La porta si apre sul profumo caldo e rassicurante di burro e mandorle, mentre il discreto ronzio dei banchi frigo dialoga sottovoce con il neon. Dal laboratorio filtrano voci tranquille e continue, eco di mani esperte al lavoro. La vetrina lucida riflette la fatica della corsa, quasi fosse un meritato trofeo. Biscotti alla nocciola e cioccolato, piccoli capolavori rivestiti da glassa rosa e bianca, si dispongono ordinatamente come un esercito deliziosamente innocuo. Ne scelgo un paio, li porto fuori avvolti nella carta bianca e leggera, e li gusto senza fretta, appoggiato alla ringhiera che guarda la strada.
Riparto a bordo di una Panda rossa, vissuta quanto basta per trasmettere affidabilità, che affronta la strada con la familiarità di chi l’ha già percorsa mille volte. Direzione lago di Bolsena: più avanzo e più il paesaggio si distende, l’aria diventa più calda e il verde si fa meno intenso. Il lungolago tra Montefiascone e Marta diventa lo scenario ideale per gli ultimi allunghi e uno stretching senza pretese, con una fila di platani a gettare ombra su panchine che sembrano aspettare qualcosa o qualcuno che non arriverà.
Le gambe, stanche, protestano silenziosamente. Cammino scalzo sull’erba, poi entro nell’acqua senza pensarci troppo. Il lago è placido, le onde lente, quasi sospese. Immergersi è come sospendere il tempo: il primo contatto è un piccolo shock che subito si stempera in accoglienza, in rilassamento. Mi lascio galleggiare fino al collo, respirando lentamente. Quando riemergo, sento che qualcosa è rimasto lì, nell’acqua, e qualcosa è venuto via con me, come se tra noi ci fosse stato un tacito scambio. Sopra di me, il sole è già alto.
Marta
Decido di fermarmi a Marta per pranzo. In un forno, lungo via Laertina, prendo qualche trancio di pizza al taglio: margherita classica, patate e gorgonzola per contrasto, salsiccia e funghi per nostalgia e una ripiena con broccoletti e salsiccia per pura golosità. Una bibita fresca è il compromesso perfetto con il caldo. Mangio seduto fuori, al piccolo tavolino che guarda sulla strada, osservando i passanti come se anche il tempo avesse deciso, almeno per oggi, di rallentare.
Riparto, stavolta con il volante puntato verso ovest, verso il mare. La strada attraversa campi, colline e boschi, fino a quando le curve lasciano spazio a rettilinei infiniti.
Gradualmente, il verde rigoglioso cede alla macchia mediterranea, più ruvida e ostinata, per finire nella sabbia delle Graticciare. Il cielo è velato, la luce morbida, quasi smorzata. Le dune sono punteggiate di giglio marino, camomilla marittima e cisto rosa: vegetazione capace di crescere senza attenzioni, sfidando vento e aridità. Qualche ombrellone, una capanna bianca, famiglie immerse in letture discrete.
Cammino lentamente, fotografo un tronco piegato dal vento, ascolto il mare respirare. In lontananza, il Monte Argentario e l’Isola del Giglio emergono appena, come ricordi già in procinto di cambiare forma.
NO SCORIE
Sulla via del ritorno, lungo la SP106 La Doganella, qualcosa cattura la mia attenzione: uno striscione giallo acceso, lettere nere nette che strillano silenziose tra due pali. «NO SCORIE – Tuscia in Movimento». Freno, accosto e scatto una foto. È una protesta e sembra gridata con grande fermezza. Nella Tuscia, tra sorgenti cristalline, necropoli etrusche e geometrie ordinate di campi coltivati, qualcuno ha deciso di alzare la voce contro l’assurdità di 150 ettari destinati a custodire rifiuti radioattivi. Parliamo di 78.000 metri cubi di scorie “leggere” (si fa per dire) e 17.000 metri cubi di quelle più impegnative. Le motivazioni appaiono cristalline e inevitabili come le sorgenti stesse: rischio sismico, falde idriche potabili a pochi passi, agricoltura e turismo appesi a un filo sottilissimo.
Nessuna retorica da barricata, solo la risolutezza lucida di chi, conoscendo intimamente la fragilità del proprio territorio, vuole proteggerlo dalla stupidità tragica della modernità.
Ischia di Castro
Riprendo la strada verso Ischia di Castro.
Poco prima dell’ingresso in paese, faccio una breve sosta al Santuario della Madonna del Giglio. Dal piazzale, nascosta dietro un velo di fronde, appare il campanile della Chiesa di San Ermete Martire, sospeso quasi irreale tra cielo e vegetazione. Il Santuario mi accoglie fresco, silenzioso, intimo. L’affresco della Vergine col Bambino sembra guardare lontano, distratto forse proprio dal campanile, o forse dal sentiero sinuoso che scivola fino alla valle sottostante.
Rocca Farnese
Parcheggio vicino alla Rocca Farnese e inizio la passeggiata della sera.
Qui le case non sembrano costruite ma cresciute direttamente dalla roccia, ricoperte da rampicanti vivaci, con terrazzini storti e scalette in pietra levigata dal tempo. Un vecchio braciere arrugginito, ma dignitoso come un monumento antico, domina accanto a un arco di pietra. I vicoli, stretti e tortuosi, rivelano una quiete vibrante: un gatto cammina con sfrontata sicurezza su un parapetto, seguendo una donna che scende lentamente, portando tra le mani un sacchetto di plastica.
La Rocca, opera di Antonio da Sangallo il Giovane e voluta da Alessandro Farnese, futuro papa Paolo III, sembra dormire serenamente senza mai perdere la sua solenne autorità. Poco alla volta, i lampioni si accendono con discrezione, offrendo più un invito a perdersi che una vera illuminazione. La luna, una falce sottile, disegna riflessi argentati sui tetti.
Ischia di Castro respira piano, consapevole che ogni storia autentica si gusta lentamente, senza la fretta di arrivare alla fine.
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