
C’è una domanda che mi gira in testa da settimane, e più ci penso più non trovo una risposta netta. Ha ancora senso scrivere articoli su internet, ora che ci sono le intelligenze artificiali?
Lo so, messa così sembra una provocazione. Ma non riesco a scrollarmi di dosso questo senso di smarrimento ogni volta che apro un sito, ogni volta che mi metto davanti a una pagina bianca. Chi sto cercando di raggiungere? E soprattutto: c’è ancora qualcuno dall’altra parte? O stiamo lentamente affondando in un mare di testi generati da algoritmi, dove le parole diventano solo rumore di fondo?
Non voglio cadere nel facile allarmismo, né in una nostalgia sterile per un tempo che forse nemmeno è mai esistito. Ma credo valga la pena fermarsi un attimo. Respirare. Guardare quello che sta succedendo senza fretta, con quel passo lento che a volte ci dimentichiamo di avere. Perché qualcosa sta cambiando. E io, sinceramente, non so bene come sentirmi.
Usano tutti le AI
Ormai le usano tutti, o quasi tutti, queste intelligenze artificiali. Chi per scrivere articoli, chi per generare idee, chi per rispondere ai messaggi o addirittura per raccontare storie. E io mi chiedo: qualcuno, tra gli psicologi o gli studiosi della mente, sta davvero indagando su cosa significherà questa nuova pigrizia mentale? Perché è comodo, certo. È velocissimo. Ma a forza di delegare il pensiero, le parole, persino i dubbi… cosa resterà di noi?
E poi: se tutti scrivono usando le AI, che senso ha leggere articoli? Non è più semplice consultare direttamente ChatGPT & company e saltare l’intermediario umano? Perché dovrei fidarmi di un autore, quando posso avere in pochi secondi una risposta sintetica, levigata, pronta all’uso?
Forse ci sarà, prima o poi, un ritorno alla ricerca di autenticità. Di voci vere, imperfette, umane. O forse no. Forse l’informazione diventerà qualcosa di sterile, uniforme, senza più tracce di chi l’ha scritta. E lo stesso vale persino per le cose più semplici, come i racconti di viaggio. Se so che un racconto è stato scritto utilizzando un’intelligenza artificiale, mi accorgo che perde sapore. Perde qualcosa. Anche se non so spiegare esattamente cosa.
Pigrizia mentale: cosa dicono gli psicologi
Non è solo un’impressione: studi recenti stanno documentando proprio quella che definiscono “metacognitive laziness”, ovvero un calo nella riflessione critica e nella volontà di approfondire, tipico di chi delega troppo ai modelli linguistici. Un team del MIT, attraverso EEG, ha mostrato che utenti abituali di ChatGPT per la scrittura di saggi presentavano meno attivazione cerebrale, meno creatività e minore ritenzione della memoria rispetto a chi scriveva senza AI. Altri studi sostengono che l’affidamento eccessivo all’AI riduce l’attenzione, la capacità decisionale e l’autoregolazione nell’apprendimento.
Insomma: non è solo pigrizia, ma un rischio reale di impoverimento cognitivo, e gli psicologi lo stanno tracciando con crescente preoccupazione.
Se tutti usano l’AI, ha senso ancora leggere articoli umani?
Forse la risposta è: dipende.
Da un lato, le AI sono rapide, sintetiche e ben strutturate: ciò che serve, in pochi secondi. Dall’altro, emerge una tendenza chiamata “algorithm aversion”: quando le persone sanno che un contenuto è stato generato da un algoritmo, tendono a fidarsi meno, percependolo come impersonal o “piatto”.
Un sondaggio di Bynder poi rivela che oltre la metà degli utenti dichiara minore coinvolgimento per i testi sospettati di essere scritti da AI. Nonostante le AI siano capaci di produrre contenuto di pari qualità (talvolta migliore) la fiducia e l’attaccamento emotivo si mantengono più forti verso l’informazione umana, almeno finché la provenienza è dichiarata.
Ci sarà una ricerca di autenticità o diventeremo sterili?
Finora le evidenze indicano una tensione tra convenienza e desiderio di autenticità.
Secondo Baringa, l’81% delle persone preferisce contenuti umani per il senso di originalità, autenticità e connessione personale. Uno studio di MIT mostra che, una volta svelata l’origine AI di un testo, molti valutano l’articolo come meno interessante, emozionante o credibile.
Quindi, sì: c’è una nicchia, forse destinata a crescere, alla ricerca di voci “vere”, imperfette, con difetti e contraddizioni. Ma non è scontato che vinca sulla massa di contenuti “puliti”, veloci e dimenticabili.
Racconti di viaggio: perdono fascino se scritti dalle AI?
Accade spesso ormai.
Anche se ben costruiti, i testi di AI mancano di quella “scintilla umana”, quel dettaglio vissuto che rende viva la narrazione. L’utente percepisce un vuoto perché, senza il segno dell’esperienza personale (un errore, un’impressione soggettiva, un ricordo emotivo) la lettura resta funzionale, non empatica.
Studi evidenziano che, quando viene dichiarata l’origine umana, le persone trovano i contenuti più creativi, connessi, significativi, anche se la lettura fluida e la grammatica erano migliori nel testo AI .
Non si tratta di nostalgia, ma di consapevolezza – per quanto vaga – che dietro le parole c’è un’origine viva, che trasmette spessore.
- ✅ L’uso massiccio di AI rischia di contribuire a una pigrizia mentale reale.
- 🤖 È diventato facile ignorare l’articolo umano in favore della risposta istantanea dell’AI – ma questo può erodere la fiducia e la ricchezza dell’informazione
- 💬 Però, è anche possibile che chi cerca autenticità la troverà: voci autentiche, imperfette e umane avranno sempre uno spazio, e forse un valore maggiore.
- 📚 Nel campo narrativo (come i racconti di viaggio) l’anima umana resta fondamentale: l’AI può imitarla, ma spesso manca quella scintilla che ci fa sentire partecipi.
Internet era un mondo “fake” anche prima delle AI
A dire il vero, internet non è mai stato davvero quel luogo puro e autentico che a volte, con nostalgia, immaginiamo. Già molto prima dell’avvento delle intelligenze artificiali, la rete era popolata da influencer patinati, dall’esplosione di narcisisti su Instagram e da orde di copy-pasters che hanno progressivamente sostituito i copywriter: persone che, senza scrivere nulla di originale, si limitano a copiare e incollare contenuti sensazionalistici per soldi, click e visibilità.
C’erano – e ci sono ancora – i leoni da tastiera pronti a demolire chiunque, i truffatori delle chat e dei siti di compravendita, i manipolatori dell’informazione e i seminatori di odio. Era, insomma, già un mondo “phony”, come direbbero gli americani, un mondo di apparenze dove spesso la sostanza passava in secondo piano.
Ora, con le AI, tutto questo sembra moltiplicarsi. Chiunque può diventare filosofo, poeta, scrittore, grafico, videomaker, content creator… o anche falsario. In pochi minuti. In pochi click. E allora la domanda si fa più profonda: quale sarà il futuro di internet? Diventerà un luogo dove ogni voce autentica verrà inghiottita da un mare di apparenze perfette ma vuote? O ci sarà spazio, ancora, per chi sceglie la lentezza, l’imperfezione, la verità?
Consapevolezza
Forse, alla fine, la domanda non è nemmeno solo se abbia senso scrivere articoli su internet nell’era delle intelligenze artificiali. Forse la vera domanda è: che tipo di voce vogliamo lasciare nel mondo? Ma anche: che tipo di vita vogliamo vivere?
Vogliamo davvero passare il nostro tempo, e la nostra attenzione, in un ambiente sempre più finto, popolato da apparenze, copie, illusioni ben confezionate? Oppure possiamo scegliere, almeno in parte, di cercare connessioni più vere, di abitare spazi, reali o digitali, dove la lentezza, l’autenticità e il dubbio sono ancora possibili?
Non ho una risposta netta.
So solo che, nel mio piccolo, scrivere rimane un atto di resistenza gentile. Un modo per ricordarmi, e forse per ricordarci, che dietro ogni parola può esserci ancora qualcuno.
Qualcuno vero.
E che forse il senso sta tutto lì.
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