Alaska highway: storia di un viaggio solitario verso l’ultima frontiera

Ottobre 2017. Alla fine di una stagione fin troppo calda e afosa a Vancouver, il mio spirito reclamava un po’ di avventura, una di quelle selvagge e lunghe. Da mesi programmavo di trascorrere in solitaria un lungo road trip, di quelli che ti sfiancano e ti fanno pensare, e non c’è posto migliore che il nord del Canada e Alaska per farne uno.

Al volante di una vecchia ma robusta Nissan Pathfinder lasciavo finalmente la caoticissima città, in direzione Montagne Rocciose. L’inverno era alle porte, anzi, già bussava a dire il vero, ma non c’era molto da fare se non accoglierlo completamente, e perché no, anche berci una birra insieme. D’altronde sarà il mio compagno di viaggio. Armato di un buon sacco a pelo, un coltello da caccia, uno spray anti-orso e tanta fame di avventura, mi fermo per qualche giorno sulle Rockies.

Le Montagne Rocciose

Banff e dintorni sono incredibili e un bel punto di ritrovo per i backpacker e ne approfitto per stare con un paio di amici incontrati casualmente in centro, che mi fanno usare la loro doccia per qualche giorno, mentre mi godo i sentieri e gli scenari tipici. Tra trekking ed acque termali mi ritrovo di nuovo al volante, direzione Jasper, una ben più tranquilla cittadina qualche ora di macchina a nord, quasi priva di turisti. Il posto ideale per riordinare le idee e prepararmi alla lunga traversata che mi aspettava. Lasciati alle spalle gli incredibili paesaggi, mi ritrovo dopo qualche giorno a Dawson Creek, un piccolo agglomerato urbano famoso per essere il punto di partenza della Alaskan Highway.

Il viaggio

Il momento è finalmente arrivato e dopo una lunga dormita nel parcheggio del Walmart locale, ed un orribile caffè solubile, mi metto in viaggio. La neve compare prima del previsto e devo ringraziare la mia auto, ed il suo 4×4, se sono arrivato fino in Alaska. Le curve, i laghi e le montagne si susseguivano in un incredibile tumulto di forme e colori: guidare era davvero un piacere. E se di giorno guidavo ed esploravo i torrenti, i guadi e le foreste, la notte mi accampavo da qualche parte. Inutile dire che non parlavo con molte persone. Ho dovuto costruirmi un tavolino da fortuna nel retro dell’auto, già munito di branda, poiché cucinare all’esterno era un’impresa, tra vento e neve. Inoltre, era una buona fonte di calore prima di andare a dormire. Il termometro non mentiva di certo e le temperature andavano facilmente sotto lo zero, quindi era fondamentale scaldarmi un po’.
Nel frattempo, i paesaggi sensazionali mi davano ancora più energia. Mi sentivo come tornato indietro nel tempo e, più mi avvicinavo allo Yukon, più il senso di avventura si faceva forte. Cominciavano a palesarsi le prime cittadine che ospitavano ai tempi i cercatori d’oro e vedevo sempre più spesso cani da slitta che venivano addestrati in parte alle strade. Ci ho messo pochi giorni ad arrivare nello Yukon e ho deciso di fermarmi a Watson Lake. Questa simpatica cittadina non ha molto da offrire, se non un luogo particolare: un labirinto, letteralmente, di cartelli di benvenuto provenienti da una miriade di città. Qui infatti, ogni viaggiatore ha la possibilità di ricreare, tramite artigiani locali, il cartello della propria città, per inserirlo all’interno del labirinto. Mi sono perso per qualche ora leggendoli e principalmente si trattava di cartelli provenienti dal Sud America e Stati Uniti, ma anche Europa, Australia e, ovviamente, Canada.

Verso White Horse

Nella strada verso White Horse ho deciso di unirmi ad una coppia di francesi che stavano facendo il mio stesso viaggio. Ho passato un paio di giorni con loro, campeggiando in mezzo al nulla in un bel posto non meglio definito tra Marsh Lake e Teslin. Già sentivo il profumo del Klondike e le storie dei cercatori d’oro dell’epoca. Non stavo più nella pelle, ed eccomi giunto a White Horse, durante un pomeriggio nuvoloso. Questa città meriterebbe un capitolo a parte, per la sua bellezza e per il modo in cui l’ho esplorata. Magari ne parliamo la prossima volta!
A White Horse mi sono lasciato andare a qualche bevuta e qualche piatto locale, prevalentemente bisonte e salmone. Le persone del posto sono fantastiche, tanto che ho ricevuto un invito da parte di un tale, del quale non ricordo il nome ed ho perduto il biglietto da visita, per stare ospite da lui qualche giorno e completamente gratis. Qui ho conosciuto un sacco di persone, che mi consigliavano di andare in questo o quell’altro posto per vedere l’Aurora Boreale. Ero letteralmente in paradiso. Un po’ freddo, forse, ma piacevole. Il Klondike era magico e, ovunque, vi erano riferimenti alla corsa all’oro e ai suoi protagonisti. Treni e battelli a vapore erano i soli trasporti dell’epoca, ed era impossibile non notarlo. Ancora una volta ebbi la fortuna di trovare delle terme dove, per pochi dollari, potevo scaldarmi e farmi una doccia.
Ho scoperto anche che a White Horse c’erano un sacco di artisti: musicisti, pittori, fotografi e scultori erano ovunque, e non era difficile incontrarli in giro per la città e farci 4 chiacchiere. Ho passato anche un paio di giornate nei musei locali, dove era ben documentata la condizione della gente all’epoca, facendomi notare quanto ero un novellino. Quella sì che era vera avventura.

Dopo una settimana piena nella capitale dello Yukon, ho ripreso il mio viaggio affrontando la parte più dura: l’Alaska. Ci ho messo un po’ ad arrivare al confine, anche perché ho deciso di inoltrarmi un paio di volte in stradine secondarie per testare il 4×4 della mia auto. Ho affrontato un paio di bufere che mi hanno rallentato e dormito dalle parti di Destruction Bay.

Durante la serata mi sono fatto un falò per cucinare una bistecca in riva al lago, accompagnata da una birra ed una suonata di chitarra, altra mia compagna di viaggio, con la splendida ma incompleta vista del Mount Logan, un colosso di quasi 7000 metri, nonché montagna più alta del Canada. La notte è stata incredibile, le nuvole erano sparite grazie ai forti venti e mi godevo una vista spaziale dal tettuccio della mia auto. Fuori, tra gli ululati del vento, sentivo ogni tipo di rumore: dagli alberi che scricchiolavano, agli ululati dei lupi. Ero l’unico straniero in quella natura tanto selvaggia quanto magnifica. La mattina dopo mi sono svegliato tardissimo. Oramai le giornate stavano diventando veramente corte e, se c’era una cosa che avevo imparato, era che guidare col buio poteva rivelarsi una grossa cazzata.

In viaggio verso l’Alaska

Sono arrivato finalmente alla frontiera, al confine con l’Alaska. Dopo aver salutato, anche solo per il momento lo Yukon, ho oltrepassato il confine (senza difficoltà tra l’altro). Un agente americano, un po’ in sovrappeso, si è occupato di controllare il mio passaporto, già munito di visto, e mi ha augurato buon viaggio senza fare domande. Qui comincia il vero calvario. Una bufera di neve più dura delle precedenti ha messo a dura prova le mie abilità di guida, specialmente nel primo tratto, prevalentemente montuoso. Sono riuscita a cavarmela per un pelo e ho sbandato numerose volte, tant’è che molte persone mi squadravano sorpassandomi.
In effetti ero un italiano, con una macchina canadese, in Alaska. La cosa, per quanto fosse avventurosa, era un po’ incosciente… E gli Alaskiani odiano gli incoscienti. Per chi vive a stretto contatto con la natura, non c’è cosa peggiore che vedere stranieri prenderla sottogamba.
Ci ho messo un paio di giorni ad arrivare a Fairbanks, fine della Alaskan highway, e per cominciare l’inizio della mia esplorazione dell’Alaska, stato che – ho scoperto in seguito – è molto più grande e selvaggio di ciò che pensavo.

Ma questa è tutta un’altra storia…

Daniele Bertaggia

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