Colombia con lentezza: un’avventura in autostop

Dai Caraibi colombo-panamensi all’Amazzonia in autostop

L’Autostop… in Colombia?

Si può viaggiare in autostop per il sud della Colombia? Se mi avessero fatto questa domanda qualche tempo fa non avrei saputo cosa rispondere, probabilmente l’avrei trovato pericoloso e avrei considerato inutile il rischio.
Avrei sgranato gli occhi di fronte al numero di chilometri che separano i Caraibi dall’Ecuador e alla quantità infinita di ore di strada e, probabilmente, avrei preferito un aereo. Ma alla fine l’ho fatto e ho cambiato idea. A posteriori direi che bisogna provarlo: sentire un luogo, viverlo, percepire l’aria che tira, la mentalità che vige e poi conoscere un amico colombiano con cui viaggiare e condividere emozioni assieme.
Bisognerebbe viaggiare proprio per fare conoscenze autentiche, attraverso l’incontro con nuove persone, ognuno con il proprio credo, con il filtro delle proprie esperienze e della propria cultura.

Alejandro e la vita da nomadi

Io sono stata fortunata. Ho conosciuto Alejandro in un piccolo paesino situato sulla costa ecuadoriana, Puerto López, anche famoso per essere il pueblo delle balene a settembre, meta dei viaggiatori che vanno e vengono e di relax tutto l’anno. Alejandro era in compagnia di Ricardo, entrambi di Bogotá, capitale della Colombia; avevano deciso di intraprendere un viaggio basato sull’avventura e sull’improvvisazione attraverso l’Ecuador e il Perù, accompagnati dalle loro chitarre e da un repertorio di canzoni vecchio stampo che, facendo colpo sugli ecuadoriani, permetteva loro di proseguire il viaggio verso un’altra meta.

Oltre a ciò che era loro essenziale, due pasti al giorno e acqua, spesso riuscivano anche ad abbandonarsi al diletto e allo svago, insieme agli amici che incontravano sul cammino. Tutti viandanti: chi diretto da una parte, chi dall’altra, chi era in cerca di se stesso e chi sperimentava la propria arte vendendo il proprio artigianato, chi suonava per ristoranti e chi cercava lavoro temporaneamente per racimolare qualche soldo e ripartire. Alla fine credo che tutti avevamo in comune il desiderio di viaggiare e la sete di scoprire luoghi affascinanti e con buena energìa.
Ogni giorno ci si ritrovava sulla spiaggia suonando e cantando a suon di onde oceaniche, osservando il cielo, conoscendoci e, affinché fluisse il tutto, rum colombiano e agua ardiente, come veri costeños.

La meta

Insieme avevamo deciso di viaggiare. Volevamo arrivare fino al nord, sulle coste caraibiche, vedere il deserto della Guajira al confine con il Venezuela ed esplorare la Colombia fino a Panama.

È stato bellissimo attraversare l’intera Colombia, osservare un paese nella sua totalità, vivere le persone e i paesaggi che cambiano con l’aumentare dei chilometri; dopo tanta strada, diventa chiara la consapevolezza dell’infinita biodiversità umana e naturale in cui ci si imbatte, quando ci si lascia trasportare dal proprio istinto…

Dopo un mese trascorso a Capurganá, a confine con il Panama, lavorando con un ragazzo colombiano che trasportava turisti con una piccola lancia, ricevo una telefonata da Alejandro che mi avvisava di essere tornato temporaneamente in Colombia per salutare la propria famiglia. Era a Bogotá, a casa del fratello e mi chiedeva come stavo, diceva di essere molto preoccupato poiché la zona in cui mi trovavo non era molto sicura a causa della presenza persistente dei paramilitari.

Terra di nessuno

l dipartimento confinante con il Panama si chiama El Chocó ed è effettivamente una parte della Colombia dimenticata dallo Stato. Le autorità presenti sono i paramilitari, una forma di autorità non riconosciuta che ha leggi proprie ed agisce in conformità di esse. Una di queste leggi è non toccare in alcun modo i turisti, essenziali per l’economia del paese. Si tratta di una zona particolarmente complessa data la conformazione territoriale, costituita per di più da una foresta fitta che si inerpica su per i monti dove si eclissa parte della guerriglia colombiana. Io, però, mi trovavo sulla costa ai piedi dei monti, a Capurganá, luogo molto controverso poiché turistico ma allo stesso tempo terra di transito di molti immigrati che tentano di passare il confine attraverso la foresta per raggiungere il Panama.

autostop in Colombia
Santiago, in attesa che i turisti finissero di mangiare.

Dopo alcune camminate nella selva, ho visto come l’illegalità prende tranquillamente piede in zone difficilmente raggiungibili, come le miniere: qui numerosi contrabbandieri agiscono indisturbati, con l’estrazione dei minerali, quindi deturpando il suolo, inquinando i fiumi e l’ambiente circostante. È stato triste vedere i fiumi del color arancione dell’argilla e pensare a cos’altro -in quel momento non visibile ai miei occhi- fosse stato allo stesso modo contaminato.
Santiago, il ragazzo della piccola lancia, era dispiaciuto che io, straniera, vedessi quel paesaggio in quello stato. Prima della miniera, quando passeggiava per quei posti gli sembrava di essere in un mondo incantato perché tutto era armonico e naturale: un fiume grande che si articolava in altrettanti fiumiciattoli, il rumore dell’acqua che scorreva, la folta e rigogliosa erba che abbracciava i corsi d’acqua, gli alberi alti alti ed i tronchi con lineamenti circolari che si arrampicavano verso i rami in una forma naturalmente attorcigliata ed armoniosa; gli uccelli con fare maestoso scivolavano nel cielo sbattendo lentamente le loro grandi ali, nessuna costruzione alla vista e alle spalle della fitta foresta da cui eravamo appena usciti. Le rare volte che mi sono trovata in queste situazioni, i lavoratori delle miniere erano molto preoccupati della nostra presenza, ma soprattutto volevano assicurarsi di non essere né fotografati né ripresi.

Dopo momenti e persone piacevoli, energie contrastanti, conoscenze astruse e qualche arma alla vista, avevo deciso di raggiungere Alejandro a Bogotá, cogliendo così l’occasione di non perdermi un grande centro urbano da 9 milioni di abitanti. Paura!

Abituarsi alla lentezza

Dopo una mezz’ora di lancia, due ore e mezza di barca, dieci ore di autobus, due ore di transito nella terminal di Medellin e altre dieci ore di autobus fino a Bogotá, sentivo di aver preso abbastanza confidenza con il viaggio lento, godendomi tutto ciò che offre lo spazio tra un posto e l’altro: scambi di conversazione con chi si siede accanto, con chi mangia allo stesso tavolo, osservazione dei paesaggi dal finestrino; paesaggi che dopo qualche ora cambiavano dalla foresta a zone più aride, da piccoli centri urbani, a fincas di legno sparse qua e là e natura incontaminata per chilometri e chilometri e poi, ecco le montagne andine, piante mai viste e piantagioni di mais ovunque, gente con ponchos e guance color marrone, animali da trasporto e strade sterrate, il sole, le nuvole, la pioggia, la cumbia e il vallenato a tutto volume facendo da sfondo al viaggio; e poi ancora il conducente canterino, il cobrador che saltava su e giù in corsa riscuotendo il costo della tratta di ogni passeggero, la frenesia di quei movimenti e delle fermate che dopo un po’ apparivano agili e disinvolti.

Ogni spostamento da un posto all’ altro valeva tutto questo. Quando uscivo dal bus dopo un lungo viaggio, mi sentivo come se fossi reduce da una tempesta. In effetti, viaggiare è un po’ come un ciclone che piomba prepotentemente, un vortice travolgente; non si può far altro che lasciarsi trascinare dal turbine di ogni cosa. E, dopo tutto quanto, abbracciare Alejandro. Essere accolta da un amico è sempre la parte più bella di un arrivo, così come avere un posto dove dormire per la notte e non doversi preoccupare di nulla.

Metropoli

Durante la settimana trascorsa in città, ci siamo promessi l’un l’altro che non saremmo passati mai più per una città così grande. Avevamo un mese di tempo fino alla data del mio ritorno a casa. Era settembre, il clima era mite, spesso nuvoloso e a volte spuntava il sole, ma la sera tirava vento; considerando un’altitudine di circa 2.640 metri, era tutto normale. Saremmo passati per un paesino, Jamundí, nei dintorni di Cali, la città della salsa, per visitare la mamma e il figlio di Alejandro e da lì autostop fino all’Ecuador.

Perchè l’autostop? Scarse finanze e voglia di un’ultima avventura insieme. Rispetto all’Ecuador, in Colombia i mezzi pubblici sono molto cari a causa del costo del petrolio. Non che in Colombia non ci sia petrolio, anzi, ma l’effetto guerriglia ha impedito l’estrazione e la speculazione sull’oro nero, al contrario dell’Ecuador per cui il petrolio è la risorsa economica primaria, soprattutto a livello di esportazioni.

Soggiorno in famiglia

Il soggiorno a Cali con la mamma di Alejandro e Thomás, il figlio, mi ha permesso di entrare in contatto con una famiglia abbastanza agiata della società colombiana, molto simile ad alcune famiglie napoletane o del sud d’Italia. Erano tutti molto accoglienti e cortesi, l’educazione e l’apparenza al primo posto, conformi ai principi cristiani e preoccupatissimi tutti, zii, cugini, nipoti e genitori dell’azzardata decisione di Alejandro di scegliere, in questo momento della sua vita, di girare le strade del mondo con una chitarra. Nessuno, però, poteva obiettare le sue ragioni: lui sosteneva che l’unica cosa che lo faceva sentire vivo era la musica e soprattutto il viaggio, che gli aveva aperto nuovi orizzonti e mostrato molteplici alternative di vita.

Anche io sono stata viziata in tutto e per tutto, ma in quel momento ero soprattutto vista come la compagna hippy del familiare che passa a fare un saluto veloce alla famiglia, per poi partire verso altre destinazioni. Nonostante tutto è stato piacevole poter fare gite con la famiglia al rio, gustare le deliziose colazioni della mamma Marleny, a base di uova, latte e cracker, tutto mescolato in una ciotola; i pranzi erano spesso a base di riso, che non mancava mai, una fetta di pomodoro, qualche pezzo di carne, avocado e papas, e olé con i carboidrati e addio alle verdure!

autostop in Colombia
Una strada di Cartagena. Nel carretto: oltre a vari frutti ci sono avocado e limoni

Per le strade, invece, il cibo più abbordabile era la frittura di qualsiasi tipo: empanadas, patate, yuca, platano, frittelle di mais e di grano, il tutto accompagnato da grandi quantità di queso e spesso tanta carne di maiale. I venditori ambulanti sono i dispensatori di tutto il ben di dio appena citato, si trovano in qualsiasi punto della strada, il più possibile in mostra per cercare di vendere tutto ciò che hanno a prezzi popolari. C’è sempre un venditore ambulante in qualsiasi punto della Colombia, in qualsiasi paesino sperduto o zona isolata.

Machismo e cambio valuta

Dopo pochi giorni ero responsabile del pranzo in quanto unica donna presente, Marleny era sempre fuori per lavoro e giustamente era mio dovere far trovare il piatto a tavola ai maschietti di casa.
Abbandonando giorni intensi caratterizzati da tradizioni colombiane (tradizioni molto machiste), iniziava il viaggio in autostop per il sud della Colombia verso il confine ecuadoriano. Per tanti colombiani questa tratta è percorsa con l’idea di andare incontro ad un maggior benessere, trasferendosi e lavorando in Ecuador, dove la moneta in circolazione, dal 2001, è passata dal sucre al dollaro statunitense. Pertanto un forte flusso di colombiani procede verso l’altra parte della frontiera. Che strano il nostro mondo: chi guadagna in euro o in dollari può godere di un vantaggio non indifferente rispetto a chi viaggia con i pesos colombiani. Eppure, chi ha meno, è sempre disposto ad aiutarti, come ho potuto sperimentare durante il viaggio.

Le storie dei camionisti in Autostop

L’avventura è cominciata alle porte di San Augustin un paesino che si trova tra l’inizio (o la fine) dell’Amazzonia colombiana e le Ande, centro nevralgico di produzione del caffè colombiano pronto per essere esportato in Europa. Dopo pochi giorni Alejandro aveva capito che lì non sarebbe riuscito a guadagnare molto, dunque ci siamo messi sulla strada verso il Sud e fuori il braccio, hechando dedo! Di persone, camion e paesini ne avremmo visti parecchi.
Il primo mezzo su cui siamo saliti al volo era un camioncino che trasportava gas, in totale insicurezza, ma in fondo essere schizzinosa è un lusso che non puoi permetterti, quando viaggi in autostop. Così abbiamo iniziato un viaggio di circa 10-12 ore verso Mocoa, uno dei centri urbani più grandi dell’Amazzonia colombiana. Lì avevamo intenzione di fare una ricerca su sciamani, ayahuasca e vari riti spirituali, propri dell’Amazzonia. Roberto era il nome del conducente, gentile e spiritoso e come quasi ogni persona che raccoglie autostoppisti in giro, aveva voglia di raccontare le sue storie e le sue esperienze da conducente in quel pezzettino di strada asfaltata che portava verso l’Ecuador. Noi, affamati di storie, avevamo le orecchie tese, così come eravamo pronti a contribuire alla consegna del gas, ad ogni fermata, in paesini che credo non si trovino segnati su nessuna carta geografica.

Il racconto di Roberto

Roberto ci raccontava che fino a sette anni prima il Putumayo, il dipartimento in cui stavamo viaggiando, era inaccessibile a qualsiasi turista o persona non residente, era pericoloso e poteva essere fatale nel vero senso della parola. Difatti, era la prima volta che Alejandro si muoveva per quei luoghi, non aveva mai visto l’Amazzonia e non era a conoscenza di ciò che realmente succedeva in quella regione durante la guerriglia.

Nella capitale non si percepiva la tensione e il rischio vissuto dai colombiani del Putumayo. Le persone della capitale non avevano la minima idea di cosa fosse la guerriglia, il coprifuoco, i morti, i ricatti e tutto il sistema che si districava dietro alla denominazione guerrilla. Roberto descriveva così i tempi duri e di terrore passati a lavorare su quella strada affrontando ogni giorno i posti di blocco di paramilitari e guerriglieri, il tremolio delle sue mani al volante ogni qualvolta si fermava per pagare la vacuna, il pizzo. Ogni commerciante doveva corrispondere una determinata somma per poter percorrere quel tratto di strada ed era obbligato a farlo, in caso contrario la morte, o l’impossibilità di passare. Quest’ultima alternativa era anch’essa terribile perché significava non poter lavorare né portare le merci a destinazione, quindi abbandonare una regione al suo destino, senza i rifornimenti necessari. Ogni giorno alle sei del pomeriggio vi era un coprifuoco: nessuno poteva transitare su quella strada; essendo anche l’unica, significava che dopo le sei non ci si poteva muovere dalla propria casa.
Il racconto di Roberto continua. In quegli anni, spesso, doveva scendere dal proprio camion per spostare i cadaveri al margine della strada e riuscire così a passare. Era importante rivolgersi con cautela ai paramilitari o ai guerriglieri, quando si veniva fermati; non bisognava essere timorosi nè dimostrarsi sfrontati.

Il racconto di Daniel

Un altro camionista, Daniel, ci ha raccattato dall’incrocio di Santana fino a La Hormiga. È stato lui a raccontarci le voci secondo le quali i paramilitari avessero uno scantinato a La Hormiga che avevano trasformato in una piscina con piranha, destinata alle persone scomode ai paramilitari. Un’altra volta avevano bloccato Daniel per la strada e gli avevano chiesto senza alcun giro di parole il suo camion perché ne avevano bisogno. Era sceso dal camion senza farselo ripetere due volte, aveva consegnato le chiavi ed era andato via. Il giorno dopo qualcuno aveva chiamato la sua impresa dando indicazioni su dove avessero lasciato il camion per poterlo recuperare.
Daniel sembrava una persona molto coraggiosa, un uomo che in qualche modo riesce a cavarsela in situazioni di enorme tensione.
Ogni volta che scendevamo da un camion eravamo colpiti da ciò che ascoltavamo. Alejandro, in particolare, non poteva credere a queste storie: essere cresciuto a Bogotá lo ha tenuto lontano dalle vicende crude del proprio paese.

Essere Colombiani

Per me è stato un breve tuffo nella storia di un pezzetto di Colombia raccontato dai colombiani, attraverso cui è stato più chiaro comprendere alcuni loro atteggiamenti: come il terrore continuo di non sapere -neanche alla domanda più insulsa- cosa rispondere, restando vaghi e ambigui ad ogni risposta. Un popolo sempre preparato al peggio e al terrore: ecco perché nessun colombiano è facilmente impressionabile!
I Colombiani sono anche entusiasti di vedere turisti in giro per il loro paese perché per loro significa che la fama della Colombia sta cambiando, anche a livello internazionale. Sono orgogliosissimi della loro terra e, da ciò che ho potuto capire da questo viaggio, sono soltanto pochi, ma molto potenti, coloro che sono riusciti a trasformare la Colombia in un campo di orrore. La maggior parte dei colombiani non saprebbero spiegarsi le ragioni del conflitto e tanto meno della differenza tra guerriglieri e paramilitari, che col tempo è anche sfumata. Originariamente si distinguevano per ideologie politiche opposte, ma successivamente sono precipitate nella stessa trappola del narcotraffico, dei soldi e del potere, alla stessa velocità con cui un treno può uscire fuori dai suoi binari, e l’unica vittima di questo deragliamento è stato il popolo colombiano.

A termine del viaggio

autostop in Colombia

Oltrepassare la frontiera tra Ecuador e Colombia è stato come cambiare dimensione. Ormai conoscevo quella sensazione: non avrei di certo ritrovato la vitalità della Colombia e raggiungere l’Ecuador significava anche che a breve sarei dovuta ritornare in Europa. La nostalgia già affiorava e, anche tra me e Alejandro, cominciava a farsi sentire la malinconia. Più Quito si avvicinava, più le promesse di ritorno e le probabilità di rivedersi in un futuro prossimo si facevano incerte.
Il viaggio ci aveva legati ancora di più, avevamo condiviso tanto e ora stava finendo. Penso che se non fosse stato per la sua compagnia non avrei potuto attraversare il sud della Colombia in autostop e viaggiare con qualcuno del posto. Diciamo che ci siamo aiutati reciprocamente in varie situazioni: nemmeno lui sarebbe riuscito a prendere passaggi così facilmente senza una donna bianca al suo fianco.
Il caos di Quito e la frenesia della grande città ci portava lontano anni luce dai posti e dai racconti che avevamo appena vissuto. Un’avventura finiva e un’altra stava per cominciare. Ma questa è un’altra storia.
Hasta pronto Sudamerica!

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Nata a Roma, cresciuta con un tocco di napoletanità e nel sangue l'appartenenza al sud d'Italia e del mondo; Viaggiare è una dipendenza data dalla curiosità verso le culture altre. Sempre alla ricerca di ciò che è naturale nelle persone, nel cibo, nei luoghi e nella vita. Adoro ascoltare le storie della gente. Ogni cosa ha i suoi tempi e rispettarli porta sorprese inaspettate.

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