Un viaggio a Tel Aviv Gerusalemme, Ramallah e Nablus in solitaria
“In Palestina, da sola. Cosa le dice il cervello?”
Questo pensa probabilmente mia madre mentre sono seduta a cena con la mia famiglia, la televisione accesa trasmette immagini di Gaza, io parto l’indomani.
Riavvolgiamo il nastro: sei mesi fa un caro amico conosciuto in un viaggio in Grecia, A., mi aveva invitato al suo matrimonio. In Palestina. Da sei mesi procrastinavo dicendogli di non crearsi aspettative, non gli dicevo né di sì né di no, adducevo scuse.
“Eh, ma non so se avrò ferie, eh, ma il volo costa caro ecc.”
Poi nel breve spazio di un’estate lascio il lavoro, chiudo una lunga relazione, lascio il paese in cui vivo.
E in una giornata piovosa di novembre trovo un volo Ryanair per Tel Aviv e decido di riappropriarmi delle mie decisioni e del mio tempo.
Le date sono giuste, il prezzo irrisorio e prenoto.
A. a stento ci crede, io nemmeno: il tempo di trovare vestiti adeguati sepolti nell’armadio e nel giro di due settimane parto. Per la Palestina. Da sola. Senza parlare arabo. Con un backpack da 7 chili e vestiti eleganti ma modesti per andare al mio primo matrimonio arabo.
I controlli in aeroporto vanno fin troppo lisci, dico che sono lì per turismo ed è la prima volta, mostro la carta d’imbarco del ritorno, mi lasciano passare.
Fun fact: dei sette chili dello zaino, quattro sono confezioni del gioco in scatola Jenga che servirà a fine cerimonia, per permettere agli ospiti di lasciare un messaggio sui pezzetti di legno. Ho il terrore che mi vengano sequestrati in aeroporto o che mi facciano domande, invece arriveranno a destinazione.
Il futuro sposo mi aspetta a destinazione, a Nablus, e decido di muovermi con i mezzi pubblici dall’aeroporto di Tel Aviv.
Pioggia, traffico e narghilè
Aspetto quasi un’ora l’arrivo dell’autobus per Gerusalemme, dove ad attenderlo ci sono solo io e piove fortissimo. L’autista non parla inglese e a gesti riesco a spiegargli che devo scendere alla stazione centrale.
Una volta in stazione cerco la fermata del tram, sempre sotto il diluvio universale. Mi guardo intorno e vedo una gran quantità di ebrei ultra-ortodossi che indossano sacchetti di plastica per proteggere i cappelli neri dalla pioggia. Quasi tutte le macchinette che distribuiscono i biglietti del tram sono fuori servizio e quindi perdo un sacco di tempo. Un giovane con la kippah mi mostra la mappa della linea del tram scritta in ebraico e mi spiega a gesti che devo scendere dopo cinque fermate (in realtà sono sei: gli ho detto che vado alla città vecchia ma devo andare al Damascus Gate).
Sul tram mi sento osservata. Indosso vestiti anonimi per mantenere un basso profilo e mescolarmi con la gente, ma probabilmente il mio zaino attira l’attenzione.
Finalmente al Damascus Gate, inizio a camminare alla ricerca della fermata del bus per Ramallah. Il mio volo è arrivato in ritardo, ho perso un sacco di tempo e voglio arrivare prima che faccia buio. Cammino a passo svelto e quando vedo donne con l’hijab chiedo: “Ramallah?” senza smettere di camminare. Uno dopo l’altro i passanti mi indicano a gesti la strada, fino a che salto sul bus appena in tempo. Allungo 16 shekel all’autista e prendo posto vicino a una signora sorridente. Quasi tutti sull’autobus sono palestinesi, a parte un ragazzo dall’aria nordica, forse finlandese, con uno zaino gigantesco.
Un viaggio terribile: scoprirò a mie spese che il giorno dopo è un giorno festivo in Palestina, ragione del traffico consistente. La pioggia cade torrenziale, io muoio di sonno ma non voglio dormire.
Quando arriviamo al checkpoint di Qalandia il bus passa senza venire fermato, ma la coda in entrata e uscita è impressionante e ci sono persone che attraversano a piedi.
Di quel viaggio ricordo il rumore dei clacson, le luci rosse delle auto nella pioggia, il ticchettio delle gocce sul tetto, la musica martellante della radio che un uomo a un certo punto chiede di spegnere. Ho fame, sonno, un gran mal di testa e tanta voglia di arrivare. Il matrimonio è domani e sto viaggiando da varie ore non stop.
Ramallah
Dopo un viaggio infinito arrivo a Ramallah. Scendo dall’autobus e l’autista mi indica quello che dovrebbe essere il mio bus per Nablus: è talmente pieno che sta partendo con la porta e il portellone dei bagagli aperto, una folla urlante è rimasta giù dal bus. La gente è nervosa, alcuni uomini iniziano a spintonarsi, continua a piovere a dirotto. Chiedo a una ragazza se ci sia un altro autobus per Nablus e mi risponde che non si sa. Mi allontano e decido di cercare un servis, uno dei minibus/taxi gialli che partono solo una volta pieni. Tutti quelli a cui faccio segno di fermare sono pieni, allora decido di seguirne uno fino a raggiungere il parcheggio coperto/deposito da cui partono tutti i minibus.
Non lo avessi mai fatto: mi si parano davanti svariate centinaia di persone rabbiose che devono andare a Nablus, ci sono più persone che servis e i minibus possono trasportare solo 10 persone per volta. Un tizio mi mette in mano un bigliettino e capisco che ci sono i numerini come dal salumiere, che c’è da rispettare la fila per salire sui minibus e che non la sta rispettando nessuno. Quando provo a confrontare il mio numerino con quelli dei vicini non so se ridere o piangere e penso che non partirò mai: sul mio biglietto c’è uno 09, il mio vicino ha un 935, un’altra ragazza un 267. Non ci capiscono niente nemmeno loro, figuratevi io che non parlo arabo.
Il giorno dopo è festa in Palestina e praticamente tutti i palestinesi che lavorano a Ramallah stanno cercando di tornare a casa a Nablus e nei villaggi circostanti per le feste. Un esodo tipo ferragosto.
Tutte queste cose me le spiega una ragazza con gli occhiali che mi ha avvicinata, impietosita dalla mia aria confusa. Parla un inglese perfetto, è infinitamente curiosa e parla tantissimo. Mi presenta il cugino, gli amici, finisco per raccontarle persino che vestiti indosserò al matrimonio e lei commenta dicendo “Uhm, culturalmente appropriato, sarai probabilmente la più decente al matrimonio”. Mi presta il cellulare per avvisare il mio amico della situazione apocalittica, dal momento che io non so più che pesci pigliare.
Disavventure di viaggio
A un certo punto un uomo mi ferma e mi chiede se voglio dividere un taxi normale per Nablus, dice che ha trovato altre due ragazze e che ci costerà poco più del minibus. Seguo il gruppetto e fermiamo una serie di taxi, ma anche per i taxi c’è una fila dall’ordine misterioso. L’uomo si allontana per cercare un taxi in strada, perdendosi nella folla. Rimango con le due ragazze senza sapere bene il da farsi, non parlano inglese, non mi dicono niente. So solo che voglio arrivare a destinazione, sono nel parcheggio già da un’ora e mezza.
Mi torna in mente che un ragazzino, uno dei tanti con cui ho parlato in quell’ora e mezza, mi aveva detto “tu se senti gridare Nablus corri. Fai finta di non capire, di non avere il numerino, e sali.”
E proprio in quel momento, quando sto per perdere le speranze, vedo entrare un minibus bianco nel parcheggio. L’autista si sporge e grida Nablus, vedo gente correre da tutte le direzioni. Il mio istinto animale ha il sopravvento e senza pensare a niente inizio a correre come non ho mai corso in vita mia. Supero quante più persone posso, taglio la pseudo fila mentre l’autista conta le persone appena salite. Poi grida qualcosa in arabo e con il dito indice mima il numero uno. Intuisco che è l’ultimo posto disponibile e salto sul bus.Mi dispiace per le ragazze che volevano condividere il taxi, so che sono corse con me, ma le ho perse nella folla e non sono riuscite a salire.
Per pagare il biglietto, passo i soldi al passeggero davanti a me che fa lo stesso finché il denaro non raggiunge le mani dell’autista, e finalmente partiamo.
Chiacchiero un po’ con il mio vicino di posto, che è un ragazzo gentilissimo e mi lascia usare il suo cellulare per far sapere ad A. che finalmente sono partita. Parlano anche tra di loro in arabo, e si accordano per risentirsi dieci minuti prima dell’arrivo, in modo che possa venire a prendermi. Il mio compagno di viaggio mi ispira fiducia, e crollo addormentata.
A causa del traffico e della pioggia, impieghiamo due ore e mezza a percorrere un tragitto che normalmente richiederebbe un’ora di viaggio; ogni tanto mi sveglio, poi crollo addormentata di nuovo. A. chiamerà varie volte lungo il percorso.
Prima di scendere alla sua fermata, il mio vicino chiama il mio amico A. e lo rassicura che sarò in stazione dopo dieci minuti. In realtà tardiamo mezz’ora per via del traffico e perché l’autista si ferma prima della stazione, facendo scendere tutti. Non so dove siamo, ma decisamente non siamo alla stazione; si è fatto buio e la mia prima regola è di non arrivare mai da nessuna parte con il buio. Le persone, qui, hanno un cuore grande; perché il ragazzo seduto sull’autobus davanti a me, che evidentemente ha seguito tutta la successione delle telefonate, non va via ma si offre di aiutarmi. Parla inglese e si offre di chiamare il mio amico e di accompagnarmi in stazione.
Ci incamminiamo a passo svelto già mentre parla al telefono e in poco tempo mi porta a destinazione.
Non c’e solo il futuro sposo ad aspettarmi, ma anche un altro amico palestinese conosciuto in Grecia, F., che scopro – con gran sorpresa – verrà al matrimonio.
Sono stanca morta, bagnata fradicia e felice di vedere facce conosciute. Andiamo fuori a cena, mangio una quantità indicibile di hummus, falafel, cetriolini viola e chi più ne ha più ne metta: da sempre ho un debole per la cucina mediorientale.
Lo sposo ci saluta, non può far tardi ché domani si sposa, e vado con il mio amico ritrovato in uno shisha bar, uno di quei bar tipici mediorientali dove si fuma il narghilè. Prendo una bevanda al limone e menta, dico a F. che è praticamente un mojito halal, ride.
Scambi culturali
Verrò ospitata da una conoscente dei ragazzi, L., con la quale avevo già parlato su Facebook. Vengo accompagnata e quando arrivo trovo una situazione bellissima ad aspettarmi: quattro generazioni di donne palestinesi in un appartamento, pronte ad accogliermi in casa loro.
Le due ragazze che verranno con me al matrimonio hanno la mia età, mi ospitano a casa della nonna di una delle due e nella stessa casa ci sono anche la mamma, un’altra donna anziana, le sorelline.
Sono le dieci di sera, io sono uscita di casa alle 4.30 di mattina e non mi sono ancora fermata. Ho solo voglia di andare a dormire, ma voglio mostrarmi riconoscente per l’ospitalità e mi siedo in salotto con le mie ospiti. Nessuna di loro parla inglese a parte una delle ragazze giovani, che lo parlicchia. Mi offrono di fumare narghilè e accetto nonostante abitualmente io non fumi. Intuisco che in questa città si fuma parecchio, mi ricorda la Turchia.
La bimba è la più curiosa e fa di tutto per farsi capire, vorrebbe dirmi tante cose e mi parla in arabo velocissimo. Io le sorrido, le rispondo in inglese, ci capiamo sì e no, finché mi cade lo sguardo su una vecchia agenda e una penna, chiedo se la posso prendere e inizio a disegnare. In questo modo la conquisto, e continuo per un po’ a disegnare. Non potete immaginare la gioia nel disegnare una macchinina dopo che me lo aveva chiesto in arabo: allora la capivo..!
L’atmosfera è calda e accogliente, una delle ragazze ha una voce stupenda e si mette a cantare in arabo, ho la pelle d’oca dall’emozione. Verso le 23.30 ero pronta a mettermi il pigiama per andare a dormire. La nonna mi guarda con sguardo interrogativo e azzarda un “dinner?”.
Hanno preparato di tutto e ci apprestiamo a cenare (di nuovo). Così mi ritrovo a tavola con queste donne con cui comunico a gesti e a sorrisi, tengo in braccio la più piccola della famiglia mentre mi barcameno tra piatti e piattini, mangiando con le mani. Uno dei momenti più autentici del mio viaggio. Sono stanchissima, ma mi guardo intorno e non posso fare a meno di sorridere della fortuna che ho di vivere questo momento. Mi sento viva come non mi sentivo da tanto tempo. Il viaggio e la stanchezza sono dimenticati e andrò a dormire soltanto alle 3, prima della più piccola di casa.
Scoprirò con gran sorpresa che hanno riservato una stanza intera solo per me.
Un tour alla Città Vecchia
Mi alzo di buon mattino e trovo le donne tutte sedute in pigiama e vestaglia nel salotto. Sono le 8.30, preparano il narghilè. Quando declino l’invito mi offrono una gigantesca fetta di torta e mi preparano del tè alla menta. Le ragazze mi lasciano, rimango con la nonna a fare grandi conversazioni in arabo/inglese. Vuole dirmi che ha lasciato il phon sul letto, soffia e mima il vento per farmi capire, io rido e vado a prenderlo, perché dopo la doccia servirà anche a me per asciugarmi i capelli.
Una volta pronta mi ritrovo con le ragazze che hanno deciso di portarmi a fare un tour della città vecchia.
È fantastico girare per quelle strade tortuose mescolandosi alla gente del posto, in questo modo mi accorgo di scoprire posti segreti che non avrei visto se fossi passata da sola.
Riusciamo anche ad incontrare il futuro sposo per lasciargli il bottino di scatole di Jenga, poi ci rituffiamo nel labirinto della città vecchia. Passando dal bazaar, una delle ragazze mi chiede quale copricapo mi piaccia di più, ne scelgo uno pensando sia per lei, che sparisce per ricomparire dopo qualche minuto con il copricapo in mano: un regalo per me.
Per le ragazze è giornata di commissioni; io le seguo senza chiedere dove andiamo dentro e fuori da negozi e sartorie, incontriamo gente, salutiamo gente, ritirano pacchetti e pacchettini, che immagino siano per il matrimonio.
Abbuffate
Verso mezzogiorno incontriamo il fidanzato di L., e con lui andiamo a fare colazione in uno dei ristoranti più antichi e conosciuti della città, mangiamo quantità indicibili di cibo.
Seduta a tavola, noto una bandiera del Perù appesa nella moltitudine di oggetti alle pareti: lo prendo per un segno del destino, già che tra qualche mese mi trasferirò lì. Quando lasciamo il ristorante il proprietario mi stringe la mano, contento di aver ospitato un’italiana. Non mi lasciano pagare, e questa diventerà una costante del mio viaggio.
Sono quasi le 14 e dobbiamo essere pronti per il matrimonio alle 16, io ho lasciato tutto a casa della nonna e penso che ci dirigeremo lì, ma decidono di portarmi fuori Nablus, sulla cima di una montagna, per farmi godere della vista sulla città, mozzafiato.
Ci rimettiamo in auto e ancora una volta penso che stiamo andando a casa, ma ancora una volta, invece, facciamo un sacco di giri e commissioni così smetto di chiedere dove andiamo e mi lascio condurre.
La cerimonia
Quando torniamo dalla nonna mi preparo a tempi da record, con la piccola di casa che mi ruba i trucchi, poi la borsa, si nasconde sotto la mia gonna lunga come fosse il tendone di un circo mentre cerco di truccarmi in corridoio. Finalmente siamo tutte pronte e possiamo partire: la ragazza che mi ospita è bellissima, ha messo un turbante invece dell’hijab. Ancora una volta restiamo bloccati nel traffico per un tempo infinito e perdiamo l’inizio della cerimonia; quando finalmente arriviamo oltre al mio amico trovo questo: FOTO G
Ci spostiamo poi all’interno, le famiglie dello sposo e della sposa siedono a due lunghe tavolate, ai lati opposti della pista da ballo. I due sposi entrano accompagnati da un uomo che balla una danza tradizionale accompagnandosi con un tamburo, io siedo a un tavolo rotondo con il mio amico F., le ragazze che mi hanno ospitato, i fidanzati. Poco a poco ci uniamo alle danze, io ho la fortuna di essere con gente del posto che mi aiuta e mi spiega cosa fare, vedo gli altri amici stranieri dello sposo un po’ più sperduti. Sono tutti danesi, e si notano molto più di me.
La torta nuziale viene servita in felice coincidenza con un lento, e mentre al centro della pista le coppie ballano una canzone romantica, io e il mio amico ci lanciamo sulla torta.
Verso la fine della cerimonia tutti gli ospiti – nell’ordine: famiglia di lei, famiglia di lui, amici di lei, amici di lui – fanno la fila per raggiungere la coppia di sposi su un palco, dove ogni invitato dona agli sposi una bustina accartocciata con del denaro e viene immortalato con la coppia in una foto ricordo. La madre della sposa ha il divertente compito di recuperare tutte le bustine perché non compaiano nelle foto istituzionali, e a fine serata è carica come un mulo.
Usciamo all’aperto per firmare il libro degli ospiti ed eccoli in tutta la loro magnificenza, i pezzetti di Jenga da firmare. Prima di andar via gli sposi si scattano una polaroid con noi e ci lasciano la foto in regalo a mo’ di bomboniera, un’idea carinissima che sicuramente mi tornerà utile, se mai mi troverò ad organizzare un matrimonio.
Problemi di ospitalità
A questo punto, ho un problema: dove dormirò, io, stanotte?
Il programma era che sarei andata a Ramallah, ospite di un amico dello sposo, tanto che ho portato con me in auto il mio backpack. Le ragazze di Nablus mi avevano proposto però di restare da loro ancora una volta ed ero fortemente tentata, non avevo voglia di rimettermi in viaggio di sera.
A metà cerimonia, la ragazza che dovrebbe ospitarmi è però andata via con il fidanzato, giusto il tempo di farmi recuperare lo zaino dall’auto e metterlo in un’altra macchina. Non ho voglia di andare a Ramallah di sera e il mio amico F. prende in mano la situazione, telefona ad un’altra amica, H., e le chiede se mi può ospitare.
La ragazza, che non mi conosce, si mostra gentilissima e dice di sì ma sta ancora lavorando e dovrò aspettare che esca dal lavoro. F. mi dice che resterà con me, e mi accompagnerà al negozio dove lavora la ragazza, per poi portarci a casa di lei.
Dato che siamo vestiti da cerimonia, ne approfittiamo per andare in un bar elegante in mezzo al nulla, chiamato Solitaire. Lì ho l’occasione di bere una tazza di Sahlab, bevanda che adoro che non bevevo dai tempi in cui vivevo in Turchia.
Da lì raggiungiamo l’adorabile ragazza che mi ospiterà stasera, passiamo circa un’ora nel negozio di accessori da cerimonia in cui lavora, seduti a un divanetto a commentare vestiti, scarpe e lustrini eccentrici finché il suo turno finisce e ci dirigiamo a casa sua.
La seconda famiglia palestinese che mi ospita merita un capitolo a sé.
Ospitalità allo stato più puro
La famiglia che mi ha inaspettatamente ospitata quella notte è stata la sorpresa più bella del viaggio: non mi hanno accolta in casa loro per obbligo o per accordi con terze parti o perché mi conoscono, ma solo per il piacere di ospitare.
Nella casa vivono, insieme al padre, tre ragazze della mia età; una di queste è la ragazza del negozio, H.
Le sue sorelle, che parlano pochissimo inglese, nelle due ore dalla telefonata di F. al mio ingresso in casa hanno cucinato un banchetto nuziale e prevedo che stasera andrò a dormire con la pancia piena, pienissima.
Quando ci sediamo a tavola c’è un iniziale momento di imbarazzo, poi una delle sorelle inizia a fotografare tutto il cibo presente a tavola e io per rompere il ghiaccio chiedo “Instagram?”. Ridono tutti e l’atmosfera si distende. Scopro che il padre parla un po’ di inglese, ha vissuto a lungo in Romania e capisce l’italiano. Incredibile. Ci troviamo a conversare in italiano/rumeno con gran sorpresa delle figlie, e grazie a questa vicinanza linguistica scampo il rischio di mangiare il fegato per errore.
Sono vegetariana e in Medioriente mi va sempre bene, perché tutti i piatti sono al centro, le pietanze si prendono con le mani con un pezzetto di pane e io posso scegliere tra una gran varietà di cibo senza sembrare maleducata rifiutando la carne. Sto per allungare la mano verso una pietanza scura e chiedo in inglese alle ragazze se sia carne. Mi dicono di no, che posso mangiare, ma esito perché la consistenza non mi convince, finché il padre pronuncia in rumeno la parola “ficat” facendomi capire che è a base di fegato. Viva le lingue romanze.
A casa loro passo una delle serate più belle di questo viaggio, parliamo del matrimonio, decidono di mostrarmi il video del matrimonio di uno zio che si è sposato da poco, cantano, ballano, ridono in pigiama mentre rivediamo un ricordo importante per loro. Telefona la madre, che è in viaggio, e le raccontano di me.
L’indomani mi devo alzare presto per raggiungere gli sposi a Betlemme, ma anche stasera andrò a dormire tardissimo.
Se avete familiarità con la cultura araba/mediorientale, saprete che è uso comune, se sei l’ospite, che ti spetti IL letto o LA stanza. Io avevo detto loro che non c’era problema, che avrei dormito tranquillamente sul divano o per terra, ma non c’è verso di convincerli e mi lasciano il letto matrimoniale, il papà dorme su un materasso in salotto.
Porto sempre con me cartoline della mia città da lasciare in ricordo alle persone che mi ospitano nei miei viaggi: prima di andare a dormire tiro fuori una cartolina, ci scrivo sopra una frase di ringraziamento e la porgo alla famiglia. Loro si commuovono per il mio gesto.
L’indomani sarà venerdì, che è come fosse domenica per noi, e al momento della buona notte li rassicuro che li lascerò dormire e non li sveglierò quando andrò via, verso le otto.
Appena poggiata la testa sul cuscino cado in un sonno profondo, senza sogni né pensieri.
Nonostante i miei propositi, la mattina dopo vengo svegliata da H., che mi ha preparato la colazione e ha anche pensato a chiamare un taxi per me.
Ricordo quella colazione con tenerezza: un tè nero con un rametto di Miramieh in infusione. La ragazza mi spiega che si tratta di una spezia locale, e le rispondo che è buonissima. Subito si assenta per tornare qualche istante dopo con una borsa piena di Miramieh. Quando l’annuso, scopro che si tratta di salvia, ma accetto il regalo emozionata e lego la busta allo zaino. Ma la ragazza non ha ancora finito con i regali: mi fa segno di aspettare, va in camera e da un cassetto tira fuori una collanina con la bandiera della Palestina. So che quel regalo mi creerà problemi in aeroporto, ma lo accetto a cuore aperto con le lacrime agli occhi. Quando arriva il taxi per la stazione lei mi accompagna fuori nonostante sia in pigiama e faccia freddo, ci facciamo un’ultima fotografia insieme, un ultimo abbraccio e parto.
Quando arrivo alla stazione e chiedo all’autista quanto gli devo, mi dice che il taxi è già stato pagato.
In così poco tempo, la connessione con la gente del posto è così forte che mi sento molto più sicura, come se fossi lì da molto.
“Sayarat Ramallah?” chiedo agli uomini nel parcheggio. Uno mi accompagna ad un pulmino giallo: salgo, aspettiamo un po’ che arrivino altre persone a riempirlo, sento che quello è già il mio addio alla Palestina. Guardo fuori dal finestrino le immagini polverose di Nablus che si allontana. Arrivo a Ramallah con il sole e mi sembra irriconoscibile.
Ripercorro a piedi il cammino verso il parcheggio infernale, ma lo trovo deserto. “Sayarat Betlehem?” chiedo. Un minibus per Betlemme?
Sembra magia, ma non ci sono numerini, non c’è calca, e un uomo anziano mi accompagna al minibus. Salgo e ci sono soltanto una donna e un bambino piccolo, per cui ci toccherà aspettare finché si riempie. Aspettiamo quasi un’ora, e nel frattempo faccio amicizia con il bimbo che non ha altri giochi con sé, se non le chiavi della madre. Ma non ci lasciamo scoraggiare e giochiamo con le chiavi, parlando un po’ in arabo e un po’ in inglese, tra smorfie, gesti e tanta fantasia. Salgono altri uomini, poco a poco il minibus si riempie.
Quando sale l’ultimo passeggero lo guardo stupita: non è palestinese. Cosa ci fa un altro straniero di buon mattino nel parcheggio di Ramallah? Il ragazzo sale, mi si siede accanto, inizia a fare small talk in inglese, ma l’accento lo tradisce: è di un paese nei dintorni di Madrid, indovino subito perché ho vissuto in Spagna fino a poco tempo fa. Iniziamo a parlare in spagnolo e nel tempo di un viaggio condividiamo le storie delle nostre vite.
Io gli dico del matrimonio, lui mi racconta che sta viaggiando in Israele, Giordania e Palestina in solitaria, e in effetti ha l’aria di un viaggiatore incallito.
A Betlemme ci salutiamo e io raggiungo A., lo sposo. Passiamo in un ristorante molto famoso a prendere da mangiare take away, prendiamo una cosa meravigliosa a base di ceci che si chiama fatteh e altre prelibatezze e ce ne andiamo a casa loro, dove la novella sposa ci aspetta.
Passando, vedo la chiesa della Natività, e pur non essendo credente spero di avere il tempo di visitarla l’indomani prima di partire.
Gli sposi sono stravolti dal matrimonio, ci sono amici stranieri venuti da ogni dove che vanno e vengono da Betlemme per passare del tempo con loro. Con me hanno confidenza quindi mi confessano che sono stanchi morti: c’è casa da pulire, prima che arrivino tutti gli altri amici, non hanno voglia di fare nulla.
Mangiamo, li aiuto a sistemare, ci aggiorniamo un po’ sulle nostre vite e poi decido di lasciarli riposare. Ho solo un pomeriggio per visitare Betlemme e piove fortissimo, esco da sola e ho due opzioni: visitare la città vecchia o andare a vedere il Muro.
Muro di separazione
Mi avvio a piedi fino al muro ed è un’esperienza forte, resa tetra dalla pioggia e dall’assenza di persone e turisti in strada. Scatto qualche fotografia dei famosi graffiti, parleranno per me che davanti a quel muro sono ammutolita e mi sono sentita impotente, come davanti ad altri muri in altre parti del mondo.
Il resto del pomeriggio, della sera e poi della notte si divide tra narghilè, gente che va e che viene, tempo trascorso un po’ in casa e un po’ al bar, sempre con una miriade di amici, poi di nuovo a casa con tutti gli amici, fino a tardi. Domani dovrò alzarmi alle cinque per partire in direzione dell’aeroporto con una coppia di danesi, quindi a un certo punto saluto la compagnia e vado a dormire, ma è già tardissimo.
Il ritorno è sfiancante, controlli al checkpoint e in aeroporto tanti, troppi, interrogatori con domande assurde, lo zaino svuotato, mille perquisizioni, l’ansia. Ma non voglio essere polemica e non entrerò nel merito poiché alla fine sono stata lasciata passare senza multe o troppi problemi. Ho preso un aereo con la testa piena di immagini e la voglia matta di tornare presto.
Epilogo
Sono stati pochi giorni, ma incredibilmente intensi. A chi mi chiede: ma ti sentivi sicura? Ma non avevi paura? Posso dire che sono stata in 27 paesi fino ad ora, quasi sempre da sola, e in pochi luoghi mi sono sentita così sicura e così accolta e rassicurata dalla gente del posto. Ho perso il conto dei cellulari che mi sono stati prestati per fare telefonate, delle persone che mi hanno presa e accompagnata al bus corretto, che hanno speso una parola, un sorriso per farmi sentire la benvenuta.
Anche a livello di comunicazione direi che la Palestina è un paese facile da vivere: i giovani parlano inglese, se non lo parlano lo capiscono, e anche quando non c’è una lingua in comune ci si fa capire facilmente. Quando si parla di viaggi è tutto molto soggettivo, ma sia a livello di comunicazione, sia a livello di sicurezza ho vissuto come più impegnativi certi viaggi in solitaria nell’Est Europa (es: Ucraina).
A conti fatti, solo in un momento del mio viaggio mi sono sentita insicura ed ho avuto paura: in aeroporto.
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Che storia! 🙂
Voglio viaggiare anche io in Palestina. Tutti dovrebbero sapere come stanno davvero le cose…
Che triste vedere cosa sta succedendo in queste ore drammatiche in Palestina e Israele… Spero che la guerra finisca presto e tutto verrà ricostruito. E che i popoli di queste terre imparino a convivere.
E si potrà tornare a viaggiare e conoscere la vera ospitalità e cultura israeliana e palestinese che nulla hanno a che fare con il terrorismo.